OTTAWA

Siamo arrivati a Ottawa una domenica mattina di luglio e la giornata si preannunciava già molto calda a dispetto della collocazione geografica settentrionale della città.
Abbiamo trovato il parcheggio per l’auto molto facilmente poiché, probabilmente, eravamo riusciti ad anticipare di poco la marea di turisti che a breve avrebbe invaso le vie cittadine.

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Proprio accanto alla zona di parcheggio abbiamo trovato, per caso, il Canale Rideau, un passaggio d’acqua artificiale costruito a metà del XIX secolo che passa attraverso i laghi e alcuni tratti di fiume per collegare Ottawa alla città di Kingston. Questo canale è uno dei motivi di vanto della città e infatti lì intorno sono stati costruiti passaggi pedonali e ciclabili proprio per consentire la vista dei meccanismi che lo regolano. In questo piccolo pezzo di “lungocanale” ci sono varie chiuse che permettono di livellare il passaggio tra due fiumi e noi abbiamo atteso che in un bacino salisse l’acqua per permettere l’apertura del passaggio al bacino successivo.  Siamo poi entrati in uno di questi locali per una piccola sosta: facendo due chiacchiere con il barista , abbiamo scoperto che d’ inverno, quando le temperature vanno molto al di sotto dello zero, il canale diventa la pista di pattinaggio più grande del mondo!

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Usciti dal locale ci siamo diretti verso una collina alta 50 metri, con una magnifica veduta sul fiume Ottawa, che ospita la zona parlamentare, formata da edifici neogotici in arenaria finiti di costruire nel 1860. A me hanno ricordato molto la Westminster londinese. Dicono che in inverno i parlamentari vadano al lavoro pattinando sul fiume ghiacciato… Io immagino i nostri politici a fare la stessa cosa e ….rido. 🙂

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Il parlamento è aperto tutto l’anno per visite guidate gratuite sia in inglese che in francese. Appena arrivati ci siamo prenotati e abbiamo aspettato un’oretta per il nostro turno. Devo dire che ne è valsa la pena! L’interno è davvero bellissimo, la biblioteca è indescrivibile, sono rimasta a bocca aperta! L’interno della camera del governo è caratterizzato da bassorilievi in calcare e arenaria, bellissime le vetrate e l’uso del legno riccamente decorato.

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Al centro di questi edifici vi è un bellissimo prato all’inglese dove abbiamo avvistato delle deliziose marmotte, ovviamente sono corsa a fotografarle ma queste sono scappate come dei razzi… non scappano invece le guardie a cavallo, impegnate a pattugliare la zona.
Proprio davanti al parlamento, al centro di una vasca, il Centennial Flame brucia perennemente per celebrare il centenario della confederazione.  Molto bella anche la torre dell’orologio, chiamata Torre della pace.

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Con una camminata di circa mezz’oretta,siamo arrivati al punto panoramico Nepean Point segnato dalla statua di un nativo: da qua si puo’ vedere tutto il centro di Ottawa e c’è una bellissima veduta sulla collina del Parlamento. A poco distanza si trova la National Gallery: edificio di vetro e granito che ospita la miglior collezione di belle arti del Canada. Ad accogliere i visitatori, all’esterno dell’edificio, c’è un’enorme statua di un ragno alta 5 metri o forse più, davvero orrenda, che faceva parte di una mostra temporanea del museo.

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Dall’altra parte della strada c’è la Cattedrale di Notre-Dame costruita nel 1860. Da fuori non sembra niente di eccezionale mentre dentro è meravigliosa e caratterizzata da uno splendido soffitto in stile gotico, da intarsi in mogano dipinti in alcune parti per sembrare in pietra e da vetrate bellissime.

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Siamo tornati verso la macchina passando per il quartiere di Byward market che è nel centro cittadino di Ottawa. E’ un ottimo posto per rilassarsi: ci sono bancarelle che vendono fiori, ortaggi, cose artigianali, …e anche l’architettura di alcuni edifici è molto interessante (ad es.: in passato, uno degli edifici che è ora un ristorante era un tempo stalla).

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Ottawa è la città canadese che ho maggiormente apprezzato: l’ho trovata composta ma vivace, allegra ed elegante, colta ed interessante.

Mi piacerebbe tornarci!

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DUBAI

E’ difficile descrivere una città come Dubai: al primo sguardo può sembrare niente di più che un cantiere a cielo aperto!
I grattacieli compiuti sono di gran lunga meno numerosi di quelli in costruzione e, addirittura, meno delle zone desertiche recintate in previsione di future costruzioni.
Le strade trafficatissime serpeggiano fra sottopassi e sopraelevate e si incuneano fra questi giganti che riflettono impietosi la luce del sole.
Non è una città che risponde ai canoni europei: niente marciapiedi, niente piazze, niente portici. Il sole illumina tutto in modo uniforme e niente risalta più di altro; ci si trova quasi abbagliati dalla sua luce mille volte replicata dalle immense vetrate.
Di giorno Dubai non è bella.

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Poi arriva la notte e tutto cambia.
Ciò che di giorno quasi infastidiva, con l’oscurità affascina: così diventa piacevole viaggiare di sera fra questi giganti illuminati, alzare lo sguardo per scoprire la luce più lontana e alta nel cielo, stupirsi di come una città non città sappia inventarsi luoghi di incontro e di svago.

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Dubai dà la sensazione di essere un futuro già vecchio: difficile da spiegare… è come se il progetto di questa città sorta nel deserto sia stato ideato per mostrare al mondo la potenza dell’emirato ma, in realtà, ne renda evidenti i limiti.
Nulla può regalare a questo luogo un fascino diverso che non sia quello del deserto; nulla possono fare le stratosferiche cifre investite in progetti faraonici contro l’assenza di un percorso di arte e storia secolare che renda la città un valore a sè stante.
Per questo sembra di stare in futuro già vecchio: perché il futuro senza radici è solo un illusione.

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In realtà queste riflessioni sono frutto di pensieri successivi al mio viaggio: mentre mi trovavo a Dubai l’incantesimo del tutto nuovo, del tutto in grande, del tutto “di più” ha funzionato. Ho trascorso giorni col naso in su per ammirare iperboliche costruzioni, ho sperperato molti soldini in mall lussuosissimi e stravaganti ( con acquari, baite e piste da sci annesse!!) e ho goduto della lunga spiaggia e del sole onnipresente.

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Questo è ciò che ci si deve aspettare da Dubai per non tornare delusi.
Per il resto…rivolgersi altrove!

“Non c’è futuro. Il futuro è una scatola vuota in cui metti tutte le tue illusioni. Tutto quello che non hai fatto, tutto quello che avresti voluto fare – puff, puff, puff! Lo metti nel futuro. E anche il passato è solo memoria, una scatola chiusa in cui hai messo quello che ti ci piace mettere e da cui hai cacciato quello che non ci vuoi. Anche il passato è inesistente, in fondo.

L’unica cosa vera è che ora siamo qui, sul prato.
Ora. Qui. Eccoci qua.

Ora ci siamo.”

Tiziano Terzani, La fine è il mio inizio

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The lost generation

Leggere per dare forma e contenuto al sogno: è una delle attività che più appagano la mia vita. Adoro scoprire particolarità, sfumature, curiosità dei luoghi che un giorno visiterò, così come adoro trovare discrepanze fra ciò che avevo immaginato e la realtà inevitabilmente differente.
Capita a volte, però, di incappare in notizie che hanno il potere di mettere in discussione il desiderio di vivere quell’avventura: mi è successo oggi, mentre leggevo un testo relativo alla cultura aborigena, alla loro particolarissima religione, da cui deriva un’ altrettanto originale arte.
Le chiamano le “generazioni rubate”: è successo che per tutto il XIX secolo, fin quasi agli anni ’60, almeno 100.000 bambini aborigeni siano stati deliberatamente sottratti alle loro famiglie dal governo australiano e dalle missioni ecclesiastiche. Questi bambini erano messi in istituto o affidati a famiglie bianche e obbligati a rinnegare la loro lingua e cultura. Le famiglie d’origine non avevano più modo di sapere nulla di loro: i bambini erano persi per sempre. Alcune leggi paternalistiche davano ai governi statali un ampio potere di sequestro dei piccoli indigeni, senza la possibilità di ricorso da parte delle famiglie. Avevo tempo fa visto un film che aveva accennato a questa vicenda, ma non ne avevo capita la vera entità!
La motivazione di tutto ciò? Questa politica aveva l’apparente fine di proteggere i bambini e garantire loro l’istruzione, ma le associazioni per la protezione degli aborigeni erano convinte che si tentasse di sradicarli per risolvere il “problema degli aborigeni”.
Molti cittadini bianchi rimasero all’oscuro della situazione fino al 1997, quando fu pubblicato un rapporto intitolato “Bringing them home”( Riportarli a casa): nel dossier si sosteneva che la politica dei trasferimenti coatti costituiva una grave violazione dei diritti umani, un “atto di genocidio mirante a spazzar via le famiglie, le culture e le comunità indigene”.

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La cosa che più mi ha indignato è che nonostante l’evidenza, ci fu ancora il coraggio da parte dell’allora primo ministro John Howard di rifiutarsi di porgere le scuse del governo e quindi anche ogni possibilità di risarcimento, perché “l’Australia non può essere ritenuta responsabile per le azioni delle generazioni precedenti”.
Alcuni conservatori addirittura negarono i fatti affermando che tutti i bambini di cui si parlava erano stati abbandonati o ceduti volontariamente dai genitori.
Solo nel 2007 il nuovo primo ministro espresse in Parlamento le scuse formali per le perdite e le sofferenze patite dalla popolazione indigena.

Ma come si può pensare e poi realizzare certe azioni aberranti come questa e avere la presunzione di ritenersi un paese civile? Rimango ogni volta scossa da quanto l’uomo possa diventare cinico e crudele.
E non è finita qui: oggi i pochi aborigeni rimasti vivono una vita misera ed emarginata.

Sono diventati un popolo di parassiti, inutile e privo di tutto, abitano i ghetti (o le riserve) poverissimi e fuori mano ma, soprattutto, sono precipitati nella spirale di un degrado senza fine e cadono sempre più nella perdizione dell’alcolismo: stanno insomma diventando inconsapevoli collaboratori di chi, dopo averli derubati di tutto, se ne vuole ora sbarazzare lasciandoli marcire in un angolo.
Ho letto dati sconvolgenti: un allarmante numero di aborigeni fra i 25 ed i 54 anni si suicida. E’ una intera generazione (la chiamano “The lost generation”, la generazione perduta) di uomini e donne incerti sul loro posto nel mondo.

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In tutte le statistiche che ho avuto modo di consultare gli aborigeni risultano sistematicamente essere i peggio trattati, i più svantaggiati, discriminati, stranieri e di troppo nella terra che solo poco più di due secoli fa era loro e abitata da loro soltanto da tempo immemorabile.
E’ inammissibile, eppure è la realtà.
E tornando alla mia lettura…certe volte è meglio non sapere.

“Vostro onore in questi due mesi io ho trovato una casa. L’ho rimessa completamente a nuovo e l’ho resa un ambiente confortevole per figli, così lei si espresse. Ho e conservo un posto di magazziniere, perciò mi sono conformato alle sue richieste e in anticipo. In merito al mio comportamento, invoco l’infermità mentale perché, da quando nacquero i miei figli, dall’istante che li ho guardati, io ero già pazzo di loro, quando li ho presi in braccio ero già steso. Sono prole dipendente signore. Io li amo con tutto il mio cuore e l’idea che mi si dica “Non puoi vivere con loro o vederli ogni giorno”, sarebbe come dirmi “Ti tolgo l’aria”. Io non vivo senza l’aria e non vivrei senza i miei figli! Io farei qualunque cosa, voglio stare insieme a loro, è un bisogno irrinunciabile, siamo una sola cosa e loro sono tutto per me, hanno bisogno di me come io di loro! Perciò io la prego, la prego non mi separi dai miei bambini. Grazie.”

Daniel Hillar dal film “Mrs Doubtfire”

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