MEMORIES HAWAII: seconda parte

La seconda tappa del nostro itinerario ci ha portati   verso la costa est di Oahu: qui si incontrano le spiagge più belle e più adatte ad un tipo di vacanza balneare “tranquilla”. Noi, in realtà, ci siamo fermati durante il tragitto solo per scattare qualche foto e per “respirare” l’oceano…non è mai stato lo scopo di questa vacanza trascorrere ore in spiaggia. Certo, può sembrare strano, visto che quando si sente parlare di Hawaii, la prima cosa che viene in mente è proprio la tipica vacanza spiaggia, oceano, lettino e abbronzatura… Ma il mio desiderio era di esplorare luoghi, vedere usi e costumi, comprendere un po’ meglio la cultura e le tradizioni di questo popolo.

Per questo motivo la tappa successive del viaggio è stata la visita al Polynesian cultural center: in questo centro culturale studenti universitari originari delle isole polinesiane Hawaii, Tahiti, Fiji, Tonga, Samoa e Aotearoa (nome maori della Nuova Zelanda) rappresentano in molti modi gli usi e le tradizioni della loro isole. 

Ad ognuna di esse è dedicata una sezione dell’area e, attraverso le varie esibizioni a cui si sceglie di assistere, s’impara come accendere il fuoco, estrapolare il latte di cocco dalla noce, creare le collane di fiori (lei), scalare un’alta palma, poi si ascoltano i tamburi delle isole Tonga, si assiste ai balli tahitiani e alla danza tradizionale neozelandese denominata haka. Ovviamente noi ci siamo soffermati principalmente nella zona riservata alle isole Hawaii (ma è stato interessante sfruttare questa occasione per una “infarinatura” anche delle altre isole polinesiane!) ed abbiamo cosi’ potuto assistere alla spiegazione del significato di alcune delle loro danze rituali, accessori indossati e tatuaggi ( sìììì…mi sono fatta fare un tautaggio! Quello denominato “Queen” :-),  assistere alla preparazione di cibi, vedere alcune abitazioni ed edifici sacri.

Purtroppo il tempo a disposizione non è bastato per esplorare tutto quanto avrei voluto…ma è stata un’esperienza molto bella e formativa.

Il nostro viaggio è proseguito verso la North Shore Oahu: è un tratto di costa settentrionale dove si possono osservare alcune delle onde più alte al mondo. Tra novembre e febbraio qui si possono vedere i migliori surfisti del mondo, ed è sempre qui che si svolgono i mondiali di surf. 

Per la precisione è  Sunset Beach,  un tratto di sabbia considerato uno dei luoghi di surf più praticabili al mondo, che è  stato scelto per ospitare la rinomata Triple Crown of Surfing Vans, che si svolge tra novembre e dicembre, mesi in cui il mare offre le onde più spettacolari, attese dai surfisti di tutto il mondo che qui si danno appuntamento per sfidarsi tra i flutti dell’Oceano.  

Si tratta di un tratto di spiaggia lungo poco più di tre chilometri con sabbie dai colori tipicamente tropicali con prevalenza del bianco e del beige.  Come molte spiagge sulla North Shore di Oahu, Sunset Beach è considerata pericolosa per i surfisti alle prime armi, sia per le forti correnti, sia per le estese formazioni coralline vicino alla superficie che, per la loro conformazione, espongono i bagnanti meno esperti al rischio di farsi male. Onestamente non è l’ambiente adatto a me!! Datemi 15 cm di acqua cristallina e tranquilla  e io sarò felice!!!:-)

Poichè qui è zona di attività sportiva agonistica, è ovvio che le possibilità di rifocillarsi sono innumerevoli e così…abbiamo colto l’occasione per assaggiare il dolce tradizionale per eccellenza  dell’isola, la haupia, un dolce al cocco fresco e leggero che si prepara tradizionalmente durante i luau, cioè le feste hawaiane della domenica, ma si gusta anche durante altre cerimonie, come i matrimoni.

Gusto? Una specie di panna cotta ma…super dolce!! Buona, ma non buonissima.

E’ arrivato il momento di dirigersi verso l’estremità più a orientale dell’isola:  il Ka’ena Point State Park. Questa zona costiera di Oahu è quella più remota e selvaggia: ci si arriva seguendo una strada a tratti pianeggiante e a tratti collinare che all’inizio attraversa piccoli paesi   e zone abbastanza verdeggianti per poi inoltrarsi in una zona piuttosto arida e infine arrivare a quasi lambire l’oceano.

Dopo circa 20 chilometri inizia una strada sterrata che in breve termina in uno spiazzo adibito a parcheggio Da qui si prosegue a piedi:  Il sentiero principale è lungo circa 4,3 km, costeggia le scogliere e risale lungo una parete rocciosa Questi sono  luoghi dove, secondo la leggenda, le anime degli antichi hawaiani saltano nel mondo degli spiriti per incontrare i propri antenati…forse per questo il panorama offre un’incredibile vista sul Pacifico, davvero suggestiva. Purtroppo la giornata non era particolarmente luminosa e quindi non abbiamo avuto la fortuna di poter almeno sperare di vedere da lontano le balene che in questo periodo seguono una rotta che passa a poche miglia dalla costa. Peccato!

E’ ora di riprendere il viaggio. Ripercorriamo a ritroso la strada sterrata e arrivati al primo incrocio prendiamo la direzione che ci condurrà proprio al centro dell’isola. La strada che ci troviamo a percorrere è piuttosto stretta e affiancata da campi completamente coltivati ad ananas: uno spettacolo davvero singolare vedere ettari ed ettari di terreno, fino a perdita d’occhio, completamente ricoperti da piccoli, spettinati, ciuffetti verdi.

E’ proprio dopo circa 30 chilometri che arriviamo a La Dole Plantation: questa piantagione di ananas  fu costruita nel 1950 e nel 1989 aprì al pubblico col nome di Hawaii’s Pineapple Experience, al giorno d’oggi è una delle attrazioni più popolari dell’isola e riceve più di un milione di visitatori l’anno grazie alla sua offerta di attività e tour.

Quali attività vi chiederete….beh leggendo sulla loro brochure pare che all’interno della Dole Plantation sia possibile prendere i Pineapple Express Train, ben tre trenini di diversa età e fattura, che  vi condurranno in un percorso lungo circa due miglia e della durata di venti minuti, durante il quale vi verrà narrata la storia di James Drummond Dole, fondatore dell’attuale piantagione.

Poi è possibile approfittare di un bel tour attraverso i ben otto diversi giardini che la compongono dove si trovano  non solo ananas e canna da zucchero, ma anche banane, taro, mais, lychee, papaya, mango, caffè e cacao, tutti prodotti che vengono utilizzati oggi nei ristoranti locali più raffinati ed esportati all’estero per i consumatori di tutto il mondo.

Ma la piantagione non offre solo piante da frutto, bensì anche piante floreali come l’hibiscus. Il locale hibiscus giallo, noto come “pua aloalo” in lingua hawaiiana è il fiore simbolo delle Hawaii. Questo fiore viene spesso utilizzato nelle ghirlande di benvenuto di queste isole ed il termine hawaiano è Lei. 

Comunque…alla fine…secondo voi ci sono entrata? NO. Per due motivi: odio l’ananas, odio le attrazioni “pretestuose”( comunque il colpo d’occhio era carino)

Riprendiamo l’auto per l’ultimo tratto di strada che ci riporterà al punto di inizio, cioè a Honolulu. dopo alcune miglia, nel nulla, appare sulla strada un locale che capisco essere una specie di torrefazione: non mi pare vero!!! Avevo super bisogno di un caffè ..e quello hawaiano pare sia super.  E’ un posto molto particolare: non solo bar ma anche negozio di gadget a tema “caffè”… mi porterei a casa tutta la parete con appese le foto storiche del posto!!!

Beviamo il caffè ( che davvero merita) e poi ripartiamo a malincuore: la strada adesso attraversa come un nastro di velluto nero delle colline verdissime, completamente ricperte da una fitta vegetazione: ad un certo punto il cielo si oscura ed inizia a piovere piuttosoto abbondantemente , anche il vento si alza…

Da un momento all’altro l’isola tutta sole, mare, onde…diventa una terra cupa, montuosa, umida e osservando con attenzione i profili di queste montagne piuttosto tozze e basse mi richiama alla mente il paesaggio di Jurassic Park ( in effetti alcuni paesaggi montuosi di questa zona sono stati utilizzati per quel film e anche per la serie Lost).

E così come ci è sembrato in un attimo di perderci nella foresta, così ne siamo fuori in un battibaleno: da lontano vediamo il mare scintillante che ci chiama…è l’ora di  assistere al nostro ultimo tramonto hawaiano. Eccoci! Aloha!!

“Gli Hawaiani salutano tipicamente con la parola Aloha, che ha molteplici significati, tra cui condivisione del proprio respiro o della piena presenza con l’essenza della vita. Quando si pensa o si dice la parola aloha, secondo tradizione, si crea un contesto di armonia e amore, inteso come la gioiosa coscienza dell’unità. Oltre alle parole secondo il pensiero indigeno, anche le ossa contengono mana, e molto importante è l’osso frontale, che contiene la vera essenza del nostro essere. Quando si condivide un saluto tradizionale hawaiano con qualcuno,si pone delicatamente la propria fronte contro la sua, e questo gesto apre la nostra vera essenza senza maschere gli uni agli altri. Unendo le nostre fronti, prendiamo un bel respiro assieme, condividendo così l’essenza della vita e la coscienza della connessione con la sorgente unica che ci lega. Questo tipo di saluto permette di fermare la mente, e di essere totalmente presenti con se stessi, con la persona che stai salutando, e con la vita che stai condividendo. Il saluto aloha è spesso seguito dalla frase “Pehea la ka?”, oppure “Pehea Piko kou?”. “Pehea la ka? “ si traduce letteralmente in “come sta il tuo Sole?”,ma questa frase ha anche un significato simbolico. Si riferisce a quella che alle Hawaii è definita la propria ciotola di luce, ed è una richiesta premurosa e attenta che concentra l’attenzione sulla condizione della luce dentro di noi. Per capire bene questo concetto, bisogna conoscere la storia che tradizionalmente viene raccontata ai bambini hawaiani, per insegnare loro l’importanza di una vita “pono”, corretta, giusta,armoniosa.

Questa semplice parabola, racconta che ogni bambino alla nascita è una meravigliosa ciotola di luce perfetta. Se lui nel corso della sua vita farà scelte che tenderanno alla luce, con pensieri, parole e azioni, potrà avere la forza per fare molte cose, nuotare con lo squalo, volare con il falco, comprendere e conoscere tutto. Se invece cederà alla rabbia, alla paura,al risentimento, all’invidia, lascerà cadere nella sua ciotola una pietra. La Luce e la pietra non possono condividere lo stesso spazio, per cui un po’ di luce si spegnerà. Se continuerà a mettere pietre nella ciotola, la luce alla fine uscirà, e diventerà lui stesso una pietra, e la pietra non cresce, e non si muove. Ma se in qualsiasi momento si stuferà di essere una pietra, tutto quello che dovrà fare è “huli”, girare, capovolgere la ciotola, pulirsi dalle pietre, e la sua luce tornerà, brillando ancora nel mondo,e potrà così crescere di nuovo.

Quindi chiedere “Pehea la ka?”, vuol dire, come sta la tua ciotola di luce? La stai facendo brillare, o ci sono delle pietre che ne offuscano il suo brillare?

Il linguaggio è molto importante nella lingua hawaiana così come in altre tradizioni, perché contiene al suo interno la saggezza e la connessione amorevole con il creato, le parole contengono uno spirito, e il potere di portarci verso la luce. Concludo con questa domanda allora, “pehea la ka?”, e vi auguro così di aiutarvi e aiutarmi, a ricordarmi se ce ne sarà bisogno, di pulirmi dalle pietre, e far risplendere la nostra luce.

Rodolfo Carone e Francesca Tuzzi

Memories Hawaii: Oahu, “The Gathering Place”

Estate

Sii di questa colorata luminosità

la cui incurante febbre

getta oro prima di andarsene

definitivamente nei vuoti

che non hanno misura.

Il sonno degli uccelli, il tramonto della luna,

isola dopo isola,

sii del loro silenzio

su questa marea che bilancia

un tempo, per un tempo.

Le isole non sono per sempre,

né sarà un’altra volta questa luce,

la serie delle maree, la breve estate,

sii del loro segreto

che non spaventa nessun altro.

( W. Stanley Merwin )

Prima di tutto: PAURA! Il volo da Los Angeles a Oahu che doveva durare cinque ore, in realtà è durato 7 ore e questo grazie ad una improvvisa (?…così ha comunicato il comandante) perturbazione di  notevole intensità che ha colpito proprio la zona aerea di avvicinamento e atterraggio alle Hawaii.

Si è “ballato” parecchio e molto onestamente mi è passato nella testa il pensiero :“Ma chi me l’ha fatto fare di venire fin qua in capo al mondo??”  Fortunatamente è andato tutto per il verso giusto ma appena sbarcati l’istinto di baciare la terra è stato forte! 

Oahu dunque! Quest’isola è anche chiamata “the Gathering Place” che vuol dire “il punto di incontro”  e basta trascorrervi anche solo un giorno per rendersi conto di quanto questo nome le si addica perfettamente. Nonostante Oahu sia solamente la terza isola più grande dell’arcipelago, qui si concentra la maggior parte della popolazione di tutte le Hawaii, una fusione di culture orientali ed occidentali radicata nei valori e nelle tradizioni dei popoli nativi ed  è proprio il contrasto tra l’antico e il moderno che rende così affascinante la scoperta di quest’isola. Qui si trova la capitale delle Hawaii: Honolulu.

Ho deciso di raccontare Oahu dipanando il filo di un viaggio lungo  il contorno costiero dell’isola per terminare al centro  di questo splendido territorio: un percorso che  in realtà è stato seguito in più giorni ma che mi piace immaginare come avvenuto in 24 ore. 

Partiamo da Honolulu e dalla sua spiaggia, Waikiki.

Il suo skyline è tra i più famosi del mondo: una  mezzaluna di sabbia bianca che si estende per 3 chilometri, circondata da altissimi grattacieli e con lo sfondo dell’ormai spento cratere del Diamond Head. La prima passeggiata nelle strade di Waikiki ( che è il quartiere del lungomare di Honolulu) è stata abbastanza “spiazzante” poichè finchè non ho avuto la visuale sull’oceano, l’impressione era di essere in una delle tante metropoli americane:  impressionante il numero di hotels e resort , l’atmosfera caotica, le strade a 6 corsie.

Quando finalmente ho raggiunto il lungomare …allora sì che Waikiki mi è sembrata di sicuro il simbolo dell’atmosfera tropicale!!  Spiaggia bianco-ocra, bagnanti con costumi e camicie fiorate, musica hawaiana in sottofondo, cocktail coloratissimi e decorati, fiori e profumi…e soprattutto tavole da surf! Queste isole sono  famose per questo: il surf è  una vera filosofia di vita. Comunque…guardate qui… tutto il mondo è paese: noi “lucchettiamo” le biciclette, loro le tavole da surf!! 🙂

Un altro aspetto che caratterizza Honolulu è la presenza di  ricchi e curati  giardini botanici: ce ne sono moltissimi ma per visitarli occorre la prenotazione che  noi, onestamente, non avevamo pensato di fare. Siamo così riusciti a visitare il giardino botanico collegato all’università ma non è sicuramente il più completo che si può trovare qui.

Il momento magico a Waikiki  è quello del tramonto: è come assistere ad un rito…le persone si siedono sulla spiaggia, che a quell’ora è accarezza da una leggera brezza, e aspettano l’esplosione di colori del tramonto di Oahu. 

Ho viaggiato molto, ho visto tanti tramonti tropicali, ma nulla a confronto con le sfumature arancioni , rosse, magenta , viola, che hanno dipinto il cielo  in queste serate hawaiane.

Di  sera Honolulu si anima come solo una metropoli sa fare: nelle varie avenue alle spalle della spiaggia si trovano un’infinità di locali, ristoranti, lussuosi centri commerciali e una bellissima passeggiata lungomare. In questo periodo natalizio, poi, il tutto è amplificato dalle luminarie della celebrazione chiamata “Christmas light parade”. Questa parata si tiene ai primi di dicembre e richiama persone da ogni parte del mondo; quando poi le celebrazioni finiscono le luminarie, le decorazioni, i personaggi (realizzati con materiali di riciclo ) che sono stati portati in corteo, vengono sistemati alla City Hall di Honolulu dove è possibile vederli fino alla fine di gennaio.

Qui vengono anche esposti alberi di Natale che sono stati realizzati da alcune scuole che hanno vinto un concorso dedicato proprio al Natale.

Qualche riga più su ho fatto cenno al Diamond Head, il cratere spento che domina Honolulu. La salita a questa vetta è stata una delle esperienze più belle della vacanza. 

Diamond Head State Monument è un Monumento Naturale Nazionale degli Stati Uniti, oltre che uno tra i più rinomati delle Hawaii, dove per decenni i visitatori hanno fatto escursioni fino alla sommità del cratere per godere le vedute mozzafiato su Oahu.

Parte del cratere è chiusa al pubblico ed è utilizzata come piattaforma per le antenne usate dal governo degli Stati Uniti, ma la parte restante è una destinazione molto conosciuta e visitata. 

L’escursione non è molto lunga in termini di distanza, ma la sua ascesa è abbastanza impegnativa: alcune parti del percorso si snodano attraverso una strada rocciosa irregolare, tunnel sotterranei bui ( e questo per me è stato uno scoglio difficile da superare vista la mia claustrofobia!!!)  vecchi bunker militari e ben 99 scalini al termine  dell’escursione, che sono davvero ripidi!

Quando, però alla fine, sono arrivata in cima…ho pensato che avevo realizzato uno dei miei sogni da ragazza!! Questo panorama, infatti, mi era diventato familiare quando, da ragazzina, vedevo la serie tv Magnum P.I. : c’era questo investigatore privato, interpretato da Tom Selleck, che scorazzava a bordo della sua Ferrari in lungo e in largo per Oahu e spesso le inquadrature dall’alto mostravano proprio la visuale dell’isola e dell’oceano visti da quassù!!

( FINE PRIMA PARTE)

C’è del nuovo a New York

New York non è ospitale. E’ molto grande e non ha cuore. Non è incantevole, Non è amichevole. E’ frenetica, rumorosa e caotica, un luogo difficile, avido, incerto. New York non fa nulla per chi come noi è incline ad amarla tranne far entrare dentro il nostro cuore una nostalgia di casa che ci sconcerta quando ci allontaniamo e ci domandiamo perché siamo inquieti. A casa o fuori, abbiamo nostalgia di New York non perché New York sia migliore o al contrario peggiore, ma perché la città ci possiede e non sappiamo perché.

(Maeve Brennan)

E infatti…a dispetto di tutto…New York mi è mancata!

Torno qui dopo due anni e al contrario di ciò che avevo immaginato e cioè di trovare, causa pandemia, una città imbruttita, arrancante e invecchiata, la ritrovo più vitale che mai: nell’aria ambizione ed energia, voglia di fare meglio e di più, vibrazioni di rinascita.

Da cosa si percepisce? Beh, intanto in ogni quartiere che ho visitato ho trovato nuovi spazi pubblici, molto ben pensati…come a voler dare una mano a ricostruire una socialità gravemente compromessa dagli ultimi accadimenti.

Fra le varie realizzazioni che ho avuto modo di vedere, due sono quelle che a mio avviso spiccano. 

La prima è un’ampia zona commerciale affacciata sul fiume e si chiama Hudson Yards: è il nuovo quartiere di Manhattan e ospita, tra gli altri, uno dei più spettacolari ponti di osservazione della città, The Edge e la struttura The Vessel, il nuovo MUST della Grande Mela.

Con ordine.

Il Vessel è una struttura futuristica di 45 metri ( sembra un alveare) che offre una splendida vista della città da diverse altezze e ci si può salire da quattro diverse scale che portano in cima. E questo si puó fare! ( qui stavano disponendo delle sdraio per vedere il campionato di tennis Western & Southern Open)

L’Edge, invece, è un osservatorio panoramico all’aperto non uno qualsiasi, però, ma il più alto osservatorio esterno dell’emisfero occidentale: futuristico ed elegante, l’osservatorio si trova sospeso nel vuoto, a oltre 300 metri di altezza, con vista sull’intera città di New York.

Una passeggiata nel vuoto lunga più di 24 metri, su una superficie di oltre 600 mq, che fluttua nel cielo. Tutto intorno, e sotto di sé, solo vetro: da brivido!!! E questo…mi spiace molto…ma non si puó fare! Sento il solletico sotto ai piedi anche solo a pensarci! 🤦‍♀️

E poi…arriviamo al mio preferito 🤩

Il centro commerciale The Shops at Hudson Yards: moderno, di sette piani dove si riunisce “l’ universo della moda”…insomma da perderci una giornata. Ma meglio lasciare il portafogli a casa😁. Guardare non costa nulla!

La seconda novità si puó raggiungere facendo una “passeggiata sui tetti “ di New York: seguendo infatti il tracciato che di chiama High Line (sostanzialmente un percorso verde realizzato riqualificando una vecchia ferrovia sopraelevata).

Dopo un paio di miglia si arriva a Little Island che è il nuovo e rivoluzionario “parco galleggiante” di New York, aperto il 21 Maggio 2021.

Costruito su una struttura molto particolare, sospesa sul fiume Hudson, contiene percorsi con specie rare di fiori e piante, ristoranti, un anfiteatro per spettacoli all’aperto, il tutto con una bella vista sul fiume e l’Oceano.

E’ la prima grande creazione di New York a seguito della pandemia di Covid-19, si può visitare gratuitamente ed è una delle attrazioni più curiose e suggestive tra quelle “atipiche” della città.

Mi ha colpito questo suo aspetto originale, un parco che sembra fluttuare sull’Hudson: queste strane corolle che emergono dall’acqua forniscono uno spazio verde molto piacevole e molto apprezzato: per entrare prima di mezzogiorno c’è da mettersi in coda …altrimenti niente da fare!

Dunque, in conclusione di questo metaviglioso on the road che mi ha portato in quattro stati ( Oregon, California, Arizona e Nevada) e mi ha fatto apprezzare nuovi spettacoli naturali e non, ma anche riscoprire “ antichi amori’ sono felice, alla fine di aver potuto rivedere e rivivere New York: per me resta sempre il primo amore, la prima città americana che vidi nel lontano dicembre 2000, quando venni qui in viaggio di nozze, la città che scorrazzai in lungo e in largo alcuni anni dopo per un mese intero, gioravagando da sola durante il giorno ( poichè mio marito stava frequentando un corso qui alla Columbia) alla ricerca di location di film-cult , di angoli nascosti, di particolarità, di vita,…

La sua magia, il suo essere irritante e al tempo stesso magnetica, mi conquista ancora e me la fa amare sempre più.

Era troppo per crederla vera;così complicata, immensa, insondabile.

E così bella, vista da lontano: canyon d’ombra e di luce, scoppi di sole sulle facciate in cristallo, e il crepuscolo rosa che incorona i grattacieli come ombre senza sfondo drappeggiate su potenti abissi.

(Jack Kerouac)

Ciao America! Alla prossima!

Las Vegas non é solo casinò!

…anche se lo Strip , la via principale, con suoi hotel-casinò così scenografici ormai conosciuti da tutti e strafotografati sono evidentemente l’aspetto caratterizzante di questa cittá. E quaaaaanti film sono stati girati sfruttando queste location! Me ne vengono in mente mille… ma fra tutti uno dei miei preferiti “Ocean’s Eleven” ( con la banda di ladri più glamour del mondo) al Bellagio Hotel, e poi “Un mercoledì da leoni” ( che mi fa divertire sempre tantissimo) al Caesar Plaza hotel e poi, per andare su un genere piú drammatico, “Fuga da Las Vegas” con uno strepitoso Nicholas Cage, ambientato in zone più periferiche di “Vegas” (come la chiamano qui).

Perciò…ecco qua le classiche foto da, appunto, vacanza a Las Vegas 😁

Ma, per riprendere il titolo dell’articolo, Vegas non è solo questo! Innanzitutto vale la pena ricordare che si stratta di una cittá che sorge nel mezzo del deserto del Mojave ma è anche contornata da catene montuose antichissime che presentano una conformazione rocciosa davvero singolare. È per questo che proprio nei dintorni di Vegas è possibile effettuare escursioni per visitare un paio di parchi nazionali che sono stati istituiti proprio per valorizzare un habitat naturale così unico.

Il pezzo forte é sicuramente la Valley of Fire State Park a circa 80 km da Las Vegas. Mentre ci avvicinavamo in auto alla zona avevo qualche perplessità sul fatto che questo parco potesse eguagliare le meraviglie di altri parchi più famosi ( come diceva la dicitura sulla brochure) …e invece devo dire che così è stato!

Il fatto è che i l parco prende il nome dalle caratteristiche formazioni in arenaria rossa , chiamata Aztec Sandstone, formatasi dalle dune di sabbia in movimento circa 150 milioni di anni fa, e queste rocce sembrano spesso in fiamme quando riflettono i raggi del sole.

Questo rosso, inframezzato al giallo di altre formazioni rocciose e all’azzurro del cielo ( e non dimentichiamo il verde della vegetazione che “punteggia” qua e la) dá vita a visioni di peasaggi irreali.

Non per niente proprio qui hanno girato moltissime delle scene della serie ( e dei film ad essa ispirati) Star Trek che io ho ADORATO ( ero innamorata del vulcaniano orecchie a punta Spok😍).

In particolare in Star Trek Generation queste zone sono state utilizzate per rappresentare il pianeta Veridian III su cui troverá la morte il mitico capitano Kirc: questa la location originale.

Ah…abbiamo anche fatto un incontro particolare😁

Un confronto fra duri!!😁

Un altro parco che vale la pena di vedere, e che si trova a soli 16 km da Vegas, é il Red Rock Canyon: lo si visita percorrendo la scenografica e suggestiva scenic drive. Di cosa si tratta? Si tratta di 13 miglia di bellezza che corrono attorno alle enormi formazioni di roccia rossa consentendo di godersi al meglio questa magia.

Tredici miglia on the road costellata da meravigliosi punti di sosta, chiamati “point of view” . Il punto di forza di questo parco, rispetto alla Valley of Fire , più raccolta, è proprio l’ampiezza dello sguardo su panorami mozzafiato.

È in noi che i paesaggi hanno paesaggio. Perciò se li immagino li creo; se li creo esistono; se esistono li vedo. La vita è ciò che facciamo di essa. I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo, ma ciò che siamo.
(Fernando Pessoa)

Quindi per concludere: Vegas è tanto di più di una giocata al casinó! Tuttavia…lo confesso: ho giocato 5 dollari😁e … la fortuna dei principianti, ne ho vinti 100!💵💵💰

See you soon, Vegas🤩😉!!

Il mito resiste

„Basta seguire la strada e prima o poi si fa il giro del mondo. Non può finire in nessun altro posto, no?“ ( “ On the road “ J, Korouak)

Chi mi conosce sa! Sa che di automobili, motociclette, motori, cilindrate e di tutto quanto possa essere connesso a queste tematiche …io non ci capisco un tubo! E soprattutto non mi interessa saperne di più!

Può apparire quindi strano che abbia inserito nel viaggio una tappa interamente dedicata alla strada che per eccellenza viene legata all’idea del viaggio su due ruote, alle iconiche Harley: sto parlando della mitica Route 66. Ma per me la 66 vuol dire innanzitutto “ Easy rider”, un film che ho amato moltissimo: come si fa a rimanere indifferenti di fronte a un film che più di tutti incarna lo spirito dell’ On The Road, del senso di libertà del viaggio lungo le Highway americane?

E poi per me la “Mother Route” vuol dire Jack Kerouak e il libro “On the road”, Sulla strada, che è uno dei libri che ha contribuito a far nascere in me il forte desiderio di viaggiare. Così, devo dire, l’emozione è stata forte.

Inizio col raccontare dei paesini sulla 66 ormai quasi disabitati: un po’ patetici nel loro cercare di sopravvivere mantenendo vivo questo mito , soprattutto con il turismo, ma al tempo stesso anche affascinanti per quello che hanno rappresentato prima che la modernità e le nuove Highway li condannassero alla fine.

Il mio itinerario parte da Kingston che è “ la patria” della Route 66, dove c’è il museo più completo a lei dedicato: in realtà questa cittá é ancora viva e vegeta, poiché anche le nuove arterie stradali la attraversano e infatti noi ci siamo arrivati comodamente con una Highway. In ogni caso…ovunque ti volti leggi 66. È la cittadina che mi ha colpito di meno.

Da qui abbiamo imboccato la vecchia Route 66, che in questo tratto è ancora percorribile, e siamo entrati nel territorio appartenente alla riserva indiana Hualapai. Siamo arrivati a Peach Springs dove si inizia a respirare davvero la decadenza di questa zona: poche case, qualche pompa di benzina ormai in disuso, qualche bancarella con poca merce e pochi acquirenti.

Siamo infine arrivati alla cittá resa famosa dal film di animazione Cars: quella che nel film viene indicata come Radiator Sprigs, in realtá é Seligman. Inutile dire che questa opportunitá di rinascita i cittadini del luogo non se la sono fatta sfuggire e quindi accanto alla Old town é pian piano cresciuta una piccola zona commerciale tutta dedicata alla Route 66 formato Cars.

Ma passiamo ora all’aspetto indimenticabile di questo itinerario sulla 66 : il paesaggio circostante. L’Arizona, e in particolare questa zona vicino a Kingman, è superlativa da questo punto di vista: Indimenticabili lei strade infinite che tagliano in due, come lame affilate, deserti e praterie per poi insinuarsi come serpenti all’interno di aree geografiche impervie. E la route 66, in questo tratto ancora percorribile, non è da meno! Viaggiare su questo nastro d’asfalto, solo, nell’immensità di questi spazi…le immagini parlano per me…

Kerouak nel suo libro ( autobiografico) scrive che, per circa due anni, conduce una vita da nomade seguendo il suo amico Dean ma si rende conto, con il passare del tempo, che l’inquietudine dell’amico, che lo porta a sperimentare tutto ciò che può esserci di nuovo, è dovuta alla sua incapacità ad adattarsi alla società. Infatti Kerouak, dopo ogni viaggio, si sente sempre peggio e desidera ricominciare ad avere un luogo è un lavoro fisso. Ritorna quindi a New York e riprende a frequentare l’università e a condurre una vita normale. Accade però che rivedere Dean, il quale invece dopo ogni tentativo di fermarsi riprende a viaggiare, e così anche lui decide di ripartire.

Ecco…forse in alcuni casi la sensazione di assoluta libertà che si sperimenta in luoghi così sterminati, lontano da tutto e da tutti, questo continuo andare e andare, può generare una sorta di “ ubriacatura “ , un progressivo scollamento dalla realtá,…

Per quanto mi riguarda, sono rimasta affascinata da questi luoghi e spero sia solo un arrivederci…ma se anche fosse un addio le parole che userei per descriverlo sarebbero queste:

“Cos’è quella sensazione che si prova quando ci si allontana in macchina dalle persone e le si vede recedere nella pianura fino a diventare macchioline e disperdersi? È il mondo troppo grande che ci sovrasta, è l’addio. Ma intanto, ci si proietta in avanti verso una nuova, folle avventura sotto il cielo.” ( “On the Road”, J. Kerouak).

Un folle avventura…come la tempesta di sabbia in arrivo…🌩🌩🌩🌩🌪

Il mio luogo del cuore

«Anche le città credono d’essere opera della mente o del caso, ma né l’una né l’altro bastano a tener su le loro mura. D’una città non godi le sette o settantasette meraviglie, ma la risposta che dà a una tua domanda.»

(Marco Polo da Le città invisibili di Italo Calvino)

Sin dalla prima volta che arrivai qui, nel piccolo paese di Seal Beach, provai la sensazione di essere a casa.

La domanda che ho posto a questo luogo è sempre stata una: posso riposarmi qui, fra le tue vie e le tue spiagge, e immaginare un’altra vita, non in sostituzione di quella che ho ma semplicemente una vita in più, una nuova vita per quando rinascerò?

La risposta anche questa volta, dopo 5 anni dall’ultima volta che sono stata fra queste strade, è la stessa: chiudi gli occhi, anzi no, spalancali…falli ubriacare di sole, di oceano, di colori, di vento, di luce, di sabbia, di legno…cammina per le vie, ritrova i particolari sciocchi, le piante grasse, le cassette della  posta ridicole,i numeri civici pittoreschi, le staccionate romantiche, i tetti colorati, le palme grattacielo,… immergiti nelle persone che incontri, così strane, belle, brutte, gentili, sgraziate, vintage, tenere, accoglienti, incredule…..

Lasciati perdere nel sogno che desideri e vivilo come se fosse realtà.

Bentrovata Seal Beach.

Vagammo tutto il pomeriggio in cerca

d’un luogo a fare di due vite una.

Rumorosa la vita, adulta, ostile,

minacciava la nostra giovinezza.

Ma qui giunti ove ancor cantano i grilli,

quanto silenzio sotto questa luna.

( Umberto Saba)

Sacramento

La motivazione principale della mia visita alla città di Sacramento era l’idea di poter fare un salto indietro nel tempo all’epoca della mitica corsa all’oro, un’epoca che da sempre mi affascina ( vedi che disastri combina la TV ? Sono cresciuta a pane, nutella e “ La casa nella prateria”…. come potevo non rimanerne “ segnata” per sempre?😁)

Ho sempre immaginato quell’epoca come un periodo di grandi aspettative, di spirito di avventura e coraggio ..un po’ la realizzazione delle parole di Mark Twain:

“Tra vent’anni non sarete delusi delle cose che avete fatto ma da quelle che non avete fatto. Allora levate l’ancora, abbandonate i porti sicuri, catturate il vento nelle vostre vele. Esplorate. Sognate. Scoprite.”

E invece…sarò sincera: Sacramento sarà pure la capitale della California ma é proprio una brutta cittá o, forse, meglio dire che a me non é piaciuta e che ha deluso le mie aspettative.

Mi ha molto delusa anche perché, probabilmente, le informazioni che avevo raccolto prima di iniziare il viaggio mi avevano portato a crearmi nella mia immaginazione qualcosa di totalmente diverso da quello che ho effettivamente trovato.

Innanzitutto mi aveva entusiasmato l’idea di vedere la città che più di altre è legata indissolubilmente alla mitica epoca della Corsa all’oro: quando nel 1849 nelle colline della Sierra che stanno alle spalle del luogo in cui sarebbe sorta poi questa città,  si scoprirono pepite d’oro e vene aurifere, una moltitudine di persone, determinata a far fortuna, si riversò rapidamente in quella che venne presto chiamata Gold County. Proprio qui, a tempo di record, sorse un intero villaggio, con edifici ricavati dal legname e dalle vele di vecchie barche. Era nata la città di Sacramento.

Fra l’altro, pensa un po’, il fautore di tutto fu uno svizzero, Jhon Sutter, un ricco imprenditore che immaginando di trovare qui una terra per espandere la sua impresa di legname ( visto che si stava costruendo la ferrovia a lunga percorrenza che diventerá il vanto del west), si trasferì nella zona, acquistó molti terreni e …sorpresa! Dopo qualche tempo sulle sue proprietá iniziarono a trovare l’oro è così, vendendo le concessioni ai pionieri che arrivavano da ogni dove, si arrichì e inizió la costruzione di Sacramento ( che all’inizio, viste le origini del fondatore, si chiamò New Helvetia😳).

Immaginando tutto questo e fidandomi anche di molte recensioni di turisti che negli anni scorsi l’ avevano visitata ( e che decantavano la Old Sacramento come esempio di architettura dell’epoca ben testaurata e conservata), non vedevo l’ora di arrivare qui e rivivere quell’epoca che da sempre mi affascina.

E invece…come dicevo…una delusione.

La Old Sacramento é sostanzialmente un crocevia di tre isolati in cui sono stati ricostruiti edifici ( ma NON restaurati o, almeno, non tutti) che  dovrebbero ricordare la vecchia cittá di metà ‘800, ma in realtà è evidente la poca cura dei particolari, la trascuratezza e anche la poca pulizia di queste strade.

Negli edifici rimessi a nuovo si trovano gli immancabili negozi di t-shirt e souvenir, diversi bar gelateria, musei molto interessanti (come il California Railway Museum, il California Museum o il School California museum ) ma sono tutti tendenzialmente poco curati.

Sul fiume anche quella che poteva essere molto scenografica, e cioè La Delta King una nave a vapore restaurata, in realtà è stata trasformata in un hotel facendole perdere quella patina di mistero e inaccessibilitá che avevo immaginato.

Mi é piaciuta invece questa iniziativa: la possibilità di salire a bordo di una vecchia locomotiva a vapore per fare un viaggio suggestivo sulla Sacramento Southern Railroad, la prima ferrovia a lunga percorrenza costruita in America: purtroppo non abbiamo potuto fare questa esperienza perché era sold out per tutto il mese!

Ho fatto due passi anche nella downtown: nulla da segnalare, se non alcuni particolari architettonici è una carinissima libreria (che ho onorato con vari acquisti)

Insomma…non mi resta, per risollevarmi dalla delusione , che cantate”Oh! Susanna”, canzone conosciuta tutt’ora che fu l’inno dei cercatori d’oro.😃

P.s.: a Sacramento era ambientata una serie tv dei miei tempi antichi😁: La famiglia Bradford! Chi se la ricorda? A me piaceva molto!

Riverside: si fa quel che si puó!

Premessa: la zona dove abbiamo fatto una sosta di 6 giorni ( per “staccare” dall’on the road ) intorno a Seal Beach, la California meridionale, la conosciamo molto bene e quindi è difficile, qui, trovare attrazioni nuove o luoghi sconosciuti. Per questo motivo quando in hotel ci hanno consigliato di visitare la cittadina di Riverside, che non conoscevamo, abbiamo deciso di fare un’ escursione di mezza giornata.

Dunque: Riverside!

Che dire…semplicemente che quando non si hanno vestigia storiche millenarie da mostrare o bellezze naturali che possano gareggiare con il circondario…ci si arrangia come si puó…e si “inventano” le attrazioni.

Cominciamo dal presunto vanto storico: nel 1876 una famiglia locale aprì la guest house Glenwood Cottages, che si trasformò successivamente nel Mission Inn Hotel, famoso a livello mondiale, l’edificio in stile missionario più grande degli Stati Uniti.

Tra gli ospiti dell’hotel figurano presidenti come Nixon e Reagan ( che ci trascorse addirittura la luna di miele) stelle del cinema e reali. Questo hotel è grande quanto un isolato ed è decorato con archi, arcate, cortili, vetrate a mosaico, una torre con campana, una scala a chiocciola in ferro battuto, …

Ora…per carità…è carino…ma da questo a inserirlo nella classificazione ufficiale del National Historic Landmark, mi pare esagerato! Ho girato tutto intorno, sono entrata nella hall, ho intravisto i giardini ma, onestamente, se non mi fosse stato segnalato come edificio storico, credo che non lo avrei considerato piú di tanto. Anche perché mi sono chiesta : ma per quale motivo una persona nel pieno delle sue facoltà dovrebbe voler spendere un capitale per alloggiare in un hotel ( carissimo! Anche 1000 dollari a notte) che sta in una cittadina lontano da tutto? Intorno è zona semi montuosa desertica, a parte una vallata di coltivazione di agrumi ( di cui vi parlo a breve)… Comunque è un bell’hotel … e nient’ altro da aggiungere.😁

E veniamo alle bellezze naturali. Ci era stato suggerito in hotel di visitare il National Park di Riverside perché molto verde, lussureggiante …insomma un’oasi nel deserto. Mi aveva un po’ insospettito il nome di questo Parco Nazionale e cioé “California Citrus State Historic Park”… Perché citrus ( agrumi)? 🤔

E così…ci avviamo con l’auto verso questo Parco è quando arriviamo là davanti troviamo questo:

Ah! Okkkkk! Una mega arancia!!E facciamoci sta spremuta! 😁

Quindi, ricapitolando: il “parco” ( …é una fattoria didattica, diciamolo!) è stato costituito per far sapere come gli agrumi sono diventati i re della California meridionale. Infatti durante un tour guidato da un ranger si possono assaggiare arance, limoni, lime e pompelmi che crescono nella proprietà. Punto. Va beh…comunque la frutta era buonissima 😋

Penso solo che se tanto mi dà tanto…la Sicilia, con le sue coltivazioni di agrumi e i suoi reperti storici, dovrebbe diventare in toto patrimonio dell’Unesco!!

Non vorrei sembrare troppo critica: a me il kitsch tipico delle attrazioni americane piace molto ma nella misura in cui chi le propone non si prende troppo sul serio. Non mi va quando si cerca di far passare una cosa per un’altra: in questo caso era sufficiente promuovere questa coltivazione come fattoria didattica o simile.

Comunque … visto che c’eravamo abbiamo anche deciso di visitare il farmer market che si trova all’interno dell’area, “Sprout” e devo dire che, effettivamente, i prodotti esposti mi hanno fatto un’ ottima impressione. Io, poi, sono calamitata dall’aspetto estetico di qualsiasi cosa, anche di un bancarella di patate 😃 e ho trovato che il modo di presentare la loro merce sia molto accattivante.

Sono comunque soddisfatta della gita di oggi: nulla di eccezionale ma …ogni nuova conoscenza, si sa, é un arricchimento!

E a proposito di frutti della terra, un brano che mi piace molto:

LA TERRA da Il Profeta di Kahlil Gibran

La terra vi concede generosamente i suoi frutti, e non saranno scarsi se solo saprete riempirvi le mani.

E scambiandovi i doni della terra scoprirete l’abbondanza e sarete saziati. Ma se lo scambio non avverrà in amore e in generosa giustizia, renderà gli uni avidi e gli altri affamati.

Quando voi, lavoratori del mare dei campi e delle vigne, incontrate sulle piazze del mercato

i tessitori e i vasai e gli speziali, invocate lo spirito supremo della terra affinché scenda in mezzo a voi a santificare le bilance e il calcolo, affinché il valore corrisponda a valore.

E non tollerate che tratti con voi chi ha la mano sterile, perché vi renderà chiacchiere in cambio della vostra fatica. A tali uomini direte: «Seguiteci nei campi o andate con i nostri fratelli a gettare le reti nel mare. La terra e il mare saranno con voi generosi quanto con noi».

E se là verranno i cantori, i danzatori e i suonatori di flauto, comprate pure i loro doni.

Anch’essi sono raccoglitori di incenso e di frutti, e ciò che vi offrono, benché sia fatto della sostanza dei sogni, distillano ornamento e cibo all’anima vostra.

E prima di lasciare la piazza del mercato, badate che nessuno vada via a mani vuote.

Poiché lo spirito supremo della terra non dormirà in pace nel vento sino a quando il bisogno dell’ultimo di voi non sarà appagato.

Redwood e Bigfoot

Crescent City, é una delle prima cittadine che si incontrano entrando in California da nord e  abbiamo scelto di fermarci qui perchè ci è servita  da base per l’escursione di oggi : a pochi chilometri da qui, infatti, iniziano i 3700 ettari del Jedediah Smith Redwoods State Park, con le sequoie più belle e grandi della zona.

In realtá questo paese é davvero desolante: basti pensare che nel 1964 è stato quasi completamente distrutto da uno tzunami, poi ricostruito ma… è evidente la poca cura e la mancanza di una tradizione che guidi le persone a renderlo più accogliente e abitabile.

Ciò nonostante, se appena distogli lo sguardo dalla desolazione del paese e volgi gli occhi verso l’oceano o verso le foreste alle spalle, si viene  travolti da così tanta bellezza che immediatamente ci si scorda  di tutto il resto.

Cominciamo dall’oceano: una costa meravigliosa, il faro ( Battery Point Lighthouse) che assomiglia a una casetta, accessibile solo con la bassa marea, un’atmosfera dormiente e serena…tutto contribuisce a rendere il paesaggio davvero ammaliante.

Proseguiamo con la foresta di sequoie il Reedwood State Park: un polmone verde immenso, possente…davanti alla magnificenza delle sequoie, davvero, ci si sente granellini di polvere sperduti nell’universo.

L’albero più alto del mondo, la sequoia, cresce solo qui, sulla costa americana di nord-ovest: è una specie molto longeva e resistente che può vivere fino a oltre 2000 anni e raggiungere altezze oltre i 100 metri. Ma lascio alle immagini il compito di rendere l’idea della loro maestosità.

Quale ambiente migliore di questo, così primitivo, misterioso, impenetrabile, poteva essere teatro di uno degli avvistamenti più famosi del mitico Bigfoot? Mi riferisco al protagonista di leggende che parlavano di un popolo di uomini selvaggi ma colti, che vivevano nelle foreste e che potevano raggiungere i tre metri di altezza. Si chiamavano Sasquatch e qualche secolo dopo fu proprio dai Sasquatch che si originò uno dei miti più intriganti dell’America settentrionale: il Bigfoot. Ricordate uno dei tanti film con lui protagonista?

Ecco! È il 28 agosto del 1995. Una troupe della Waterland Productions stava  viaggiando attraverso il Jedediah Smith Redwoods State Park a bordo di un lungo e grosso furgone. L’atmosfera era scanzonata, la musica risuonava attraverso i tronchi dei grandi alberi che costeggiano la strada. “È un grosso orso” gridò l’autista ad un tratto vedendo qualcosa di massiccio ai margini del suo campo visivo. A bordo le cineprese non mancavano perciò decisero  di filmare l’incontro e quell’orso si muoveva davvero in modo strano. Camminava in modo eretto, le mani lungo i fianchi e al posto di un muso tozzo ma appuntito la troupe vide quello che sembrava un volto umano. 

“È un Sasquatch!” gridarono poi mentre illuminavano l’essere con tutta la potenza dei fari del furgone. La creatura alta due metri e mezzo li fissò tra il terrorizzato e l’ infastidito e poi sparì nella foresta. 

Un altro filmato, un’altra prova dell’esistenza del Bigfoot?

Mah…io non ho incontrato nessun essere anomalo…a parte nugoli di zanzare fastidiose e assetate che sembrava fossero telecomandate per seguire esattamente la mia persona (e  non quella di mio marito!): mai come oggi la mascherina mi è stata così gradita!

L’ultimo giorno del mondo

Vorrei piantare un albero

Per cosa?

Non per il frutto

L’albero che porta il frutto

Non è quello che fu piantato

Voglio l’albero che si erge

Nella terra per la prima volta

Con il sole che già

Tramonta

E l’acqua

Che tocca le sue radici

Nella terra piena di morte

E le nuvole che passano

A una a una

Sulle sue foglie.

William Stanley Merwin

Senza fiato

Fai che il tuo cuore sia come un lago.

Con una superficie calma e silenziosa.

E una profondità colma di gentilezza.

(Lao Tzu)

L’escursione di oggi ha avuto come metà una localitá che rappresenta il secondo motivo che mi ha spinto a scegliere l’Oregon come punto di partenza per il nostro on the road. Abbiamo dovuto spostarci ancora di circa 300 km per arrivare sulle rive di uno dei parchi nazionali più famosi degli Stati Uniti, il Crater Lake National Park, ma ne è valsa davvero la pena.

Il Crater Lake, con una profonditá di 594 metri,  è il più profondo degli Stati Uniti ma a renderlo speciale é  un’altra particolaritá e cioé il colore blu delle sue acque,  talmente intenso da sembrare a tratti innaturale. 

Da queste parti raccontano che  i primi visitatori di Crater Lake che fotografarono il lago, quando inviarono alla Kodak le foto da sviluppare, ricevettero in cambio il rimborso del costo dello sviluppo da parte della Kodak ritenendo che il blu del lago fosse così innaturale che non poteva che essere un errore nel processo di stampa ( leggenda metropolitana?! 🤔Forse😁)

Però, al di lá della leggenda metropolitana…comfermo!! Il lago è di un blu talmente intenso da lasciare senza fiato: oggi, poi, verso mezzogiorno il cielo si è fatto terso e il colore del lago ( che a metà mattina mi aveva abbastanza deluso tanto da far pensare che la sua fama non fosse meritata) é diventato di un  “ blu pennarello” ! Suggestive anche  le cime dei monti circostanti che  vi si riflettono come in uno specchio, data la limpidezza delle acque:   spettacolo di una bellezza stupefacente…che purtroppo, però, nelle fotografie non rende al meglio.

Ecco comunque la sequenza dalle prime foto di metá mattina a quelle di fine giornata: un crescendo di intensitá  affascinante.

Anche la circonferenza del cratere, così estesa, rende la visione d’insieme molto d’impatto, così come l’isolotto vulcanico che si erge dalle acque per poco più di 200 metri, chiamato Wizard Island ( visto che la forma dovrebbe richiamare quella di un cappello da mago).

Potrei tediarvi raccontandovi  che ciò che adesso è lago è stata una montagna o, meglio, un vulcano: circa 7.700 anni ci  fu una massiccia eruzione vulcanica, la cima del monte collassò, lasciando al suo posto una profonda depressione che nel corso di centinaia di anni, si è riempita di acqua e neve, creando lo spettacolare lago blu di oggi. 

E infatti vi ho tediato🤣

Allora per farmi perdonare vi racconto quella che è di gran lunga la mia versione preferita di come sia nato il Crater Lake , una versione a suo modo “romantica”

La premessa è che gli antenati delle  tribù dei Klamath, nativi di queste zone, assistettero al crollo del monte Mazama  e alla formazione del Crater Lake , che ancora oggi considerano come una delle “dimore del Grande Spirito”

Secondo la leggenda, appunto,  dei Klamath il dio  Llao, un giorno,  vide una bellissima  donna che era la figlia di uno dei capi Klamath e se ne innamorò: decise di chiedere al padre della ragazza la sua mano in cambio dell’immortalità. 

Il padre della giovane inaspettatamente rifiutò la proposta e Llao si infuriò.

Così, la notte successiva, Llao emerse dal monte Mazama e scagliò una pioggia di  fuoco contro le comunità che vivevano ai suoi piedi e provocò incendi e  tremendi  terremoti. 

A questa immane distruzione cercò di opporsi un’ altra giovane divinità, Skell: dopo varie peripezie egli  riuscì  a costringere Llao a tornare nelle viscere del vulcano e schiacciò la  cima della montagna verso il fondo per impedire a  Llao di risalire. Seguirono poi giorni di  piogge torrenziali, le quali riempirono il cratere lasciato dal crollo del monte Mazama e generarono il lago Crater  che divenne la nuova casa del Grande Spirito a guardia del malefico Llaos.

Sì, secondo me è andata proprio cosi’…😉

Lo scrittore Jack London, frequentatore di queste zone scriveva:

“La sua vista mi riempie di emozioni più contrastanti di qualsiasi altra scena conosciuta. È allo stesso tempo strano, affascinante, incantevole, repellente, squisitamente bello e talvolta terrificante nella sua austera dignità, e nella sua opprimente quiete. Alla luce del sole scintillante, le sue sfumature iridescenti sono abbaglianti e sconcertanti. Quando una tempesta è in corso, getta il terrore nel cuore dell’osservatore e trasporta la mente attraverso gli anni in cui è nato negli spasimi Titanici della Natura. Ci sono pochi laghi vulcanici al mondo… ma nessuno che possa neanche lontanamente avvicinarsi alla bellezza trascendente di Crater Lake”

Mia!😁

PAINTED HILLS: quando il paesaggio diventa poesia.

Il parco che abbiamo visitato oggi é stato uno dei due motivi (dell’altro ne scriverò a breve) che mi hanno portata a scegliere lo stato dell’Oregon  come punto di partenza di questo viaggio.

L’arrivo a destinazione é stato abbastanza faticoso: più di 500 km in auto, su strade tortuose e solitarie, con una temperatura che già alle 9 di mattina toccava i 38 gradi ( nel corso della giornata siamo arrivati a 41 …e pensare che in previsione di questa gita, visto le raccomandazioni delle guide che indicavano il posto particolarmente freddo anche nei mesi estivi, avevamo messo in valigia il piumino!)

L’ultimo avamposto prima di entrare nel parco di Painted Hills é un piccolo paesino, Mitchell, che sembra uscito direttamente dal far west: quando arrivi qui devi fare tutto…bere, mangiare, fare pipì, il pieno di benzina, perché poi…il nulla!

Le Painted Hills ( che fanno parte di un parco molto più vasto, il Jhon Day Fossil Beds National Monument ) hanno un’origine antichissima, circa 60 milioni di anni fa,  e danno vita ad un paesaggio spettacolare: un arcobaleno di rilievi collinari di roccia vulcanica dalle ricche sfumature di rosso, rosa, bronzo, marrone e nero.

Queste variopinte colline si estendono in un’area di circa 13 km quadrati: non so davvero trovare le parole per esprimere la meraviglia che ho provato in questo luogo! Sono stata avvolta da queste striature di colore che col trascorrere delle ore ( ma direi anche ..dei minuti) mutano, si fondono, giocano,…più delle parole, le immagini possono rendere in parte l’idea della bellezza poetica del luogo.

Non saprei dire se le emozioni più coinvolgenti le ho provate osservando dall’alto questa immensitá, come in questa veduta…

…oppure passeggiando ( sotto un sole cocente) fra le dune brillanti e roventi: ogni sfumatura di colore, ovviamente, porta con sé una storia, come ben documentato dalle targhette presenti sul percorso.

La mia immaginazione si è lasciata incantare da questa giostra cangiante…un’esperienza unica e magica.

Nel nostro girovagare di due ore abbiamo incontrato in tutto tre persone…per il resto silenzio, vento, luce,…e la sensazione di camminare in un luogo lunare.

Nel film “Into the wild “ ( tratto dall’omonimo libro che anni fa avevo letto e che mi aveva lasciata con molte perplessitá circa il senso ultimo di questa vicenda) compaiono alcuni scorci di questo ambiente così unico e devo ammettere che l’atmosfera che si respira qui si coniuga perfettamente con le idee che stavano alla base del viaggio intrapreso dal protagonista: la ricerca di  luoghi in cui non valgano le leggi di una società consumista e materialista e il ritorno ad una vita primordiale, legata solo,alle leggi della natura.

“Ho paura che il tempo della vita non basterà a colmare la grandezza dell’immenso nel mio cuore”, dice il protagonista, Chris, mentre si accorge di come in realtà non basti cambiare terra per i propri passi  e cielo per i propri occhi, ogni giorno,  per trovare la pace e la felicità.

Forse, semplicemente, felicità è accettare di essere fugaci pur nella nostra immensità…come dice il testo di  street poetry che amo moltissimo:

Ti affanni a rincorrer la felicità

Credendo che viva di attimi intensi

Di gioia e follia e invece, in realtà,

È assai più vicina di quello che pensi

È solo mancanza di infelicità

Gustare la vita con i tuoi sensi

È calma apparente, è normalità

Che riempie i tuoi vuoti di gesti e silenzi

È un giorno trascorso fuori città

Quei baci che spesso credi melensi

È assenza di traumi, è semplicità

D’istanti banali, fragili, densi

A vivere un giorno che non tornerà

In profondità, non siamo propensi

Ma è questo e non altro la felicità

Saperci fugaci scoprendoci immensi

Marta ( Poeti der Trullo)

Stand by me

Dalla costa dell’Oregon abbiamo iniziato a spostarci verso la zona centrale per avvicinarci al parco naturale che abbiamo in previsione di visitare fra un paio di giorni e che si trova ai piedi della catena montuosa Cascade.

Come ormai in questi anni mi é accaduto spesso, anche questa volta è stato proprio l’itinerario che doveva essere un semplice spostamento “ di servizio” a rivelarsi un vero e proprio tesoro: abbiamo attraversato  un’ America che non ci si aspetta, che mi ha sorpresa piacevolmente facendomi quasi rammaricare di non aver previsto una sosta da queste parti.

La strada ci ha portato in paesini molto particolari, ammantati di una patina vintage e resi ancora più rustici da un’ambientazione montana: abbiamo trovato locali dove far colazione con pelli di orso e teste di alci appesi alla parete …

…edifici con evidenti segni del tempo e ricchi di vanitá impreviste …

…ma soprattutto …Ponti di legno coperti…e con questo ho detto tutto!

Li adoro!

Credevo che fossero una peculiarità del New England e invece….no!

Questa è stata davvero una bella sorpresa nel nostro viaggio:sono ponti col tetto spiovente, finestre e balconate sul fiume,  progettati per proteggere dalle intemperie le strutture portanti, ma anche uomini e merci.

Ho saputo che un tempo ( si parla di metà ‘800) ne furono costruiti molti, circa 500; oggi ne sono rimasti circa 50 inseriti nel National Register of Historic Places: passando da questi luoghi sembra di attraversare un  piccolo mondo antico tra villaggi sperduti, ruscelli e campi coltivati, che ha qualcosa di magico, e di molto romantico ( eh lo so….qui la mente va subito al film “I ponti di Madison County” ma ahimè….non è stato ambientato in queste zone)

Da queste parti, però, hanno girato moltissime scene di un altro film cult, “Stand by me- Ricordo di un’estate” : beh…fa un certo effetto ascoltare la mitica colonna sonora di quel film attraversando questi luoghi…

Mi si affaccia alla memoria la scena finale, quella dove, mentre la voce fuoricampo di Gordie ripercorre la vicenda, il personaggio di Chris Chambers, interpretato dal giovanissimo River Phoenix, si dissolve nella luce del mattino, confondendosi col paesaggio alle sue spalle.

E’ una scena che non può fare a meno di commuovere perché così poco lontana dal reale, se si pensa che Phoenix, giovane promessa del cinema, morirà per overdose solo 7 anni  più tardi.

Stand by me

Stai Con Me

Quando cadrà la notte

e la terra sarà buia

E la Luna è l’unica luce che vedremo

no, non avrò paura

oh, non avrò paura

finché tu sarai con me, sarai con me

Se il cielo che noi guardiamo

dovesse crollare e cadere

e le montagne dovessero sbriciolarsi nel mare

non piangerò, non piangerò

no, non verserò una lacrima

finché tu sarai con me, stai con me

Credo ci siano luoghi che più di altri possano essere evocativi di un sentimento o un’emozione: ecco…l’America che sto respirando in questo momento, così anomala rispetto all’immaginario collettivo, che porta i segni del tempo passato e che fatica ad adattarsi al nuovo, suscita una forte nostalgia per tutto ciò che era e ora non è più…

Mi sembra di poter camminare su quel ponte insieme a Gordie, Chris, Teddy e Vern…alla ricerca di una strada, quale, si vedrà…

Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni. Gesù, ma chi li ha? (Gordie adulto)

Astoria, ovvero….Goonies forever

Lo ammetto: sono da sempre un’appassionata di film americani anni ‘80, in particolare di quelli per famiglie, i cosiddetti film “da botteghino” che poi col passare degli anni sono rimasti dei classici nel loro genere.

Ciò premesso, come potevo, dopo un viaggio di 19 ore, trovarmi a 100 km dal luogo delle riprese del mitico “Goonies” e non andare a farci un giro? E infatti…eccomi qua! La cittadina si chiama Astoria: molto carina, zeppa di casette e locali caratteristici che ti fanno un po’ sentire come nel bel mezzo di un episodio de La signora in giallo.

E’ proprio qui che sono state girate le scene iniziali di Goonies, quando la mitica banda di Mickey ancora doveva iniziare la fantastica avventura che li porterà ad affrontare mille pericoli.

Ovviamente, visto che di reperti storici risalenti che so…all’impero romano… da queste parti scarseggiano, gli amministratori di Astoria hanno pensato bene di sfruttare questa cosa ( cioè che esistono migliaia di persone come la sottoscritta appassionate di film oggettivamente un po’ scontati) e “mettere insieme” una specie di “museo” dei Goonies. Non ci sono stata…mi faceva tristezza. Però, lo devo ammettere, ci ho provato a fotografare la casa dove appunto viveva il protagonista, Mickey ed il risultato è stato questo: notare il cartello.

Già me lo vedo questo pover’uomo, il propietario della casa, assediato da decine di persone entrate “in fissa” per i Goonies…come non dargli torto?😁

Quindi niente foto alla casa di Mickey…ma poco importa, perché 

ciò che davvero ci tenevo a vedere con i miei occhi è questo qua:

Si tratta del paesaggio che faceva da cornice all’apparizione e successiva sparizione dell’antico galeone  del pirata Willy l’orbo…nella realtà è la spiaggia di Cannon Beach con i tipici faraglioni che orlano la costa.

Eccola qua! Molto bella, selvaggia, ventosa…è quella sottile nebbia che pian piano scende dalle montagne e nasconde progressivamente i profili degli spuntoni di roccia….incantevole.

Devo dire che oggi ho realizzato un sogno che mi portavo dietro da diverso tempo: lo so…sembra un po’ una cavolata ma…è la mia verità… e sui sogni altrui non si discute🤷‍♀️.

La prossima volta che vedrai il cielo, sarà quello di un’altra città. La prossima volta che farai un esame,lo farai in un’altra scuola. I nostri genitori hanno sempre fatto quello che è giusto per noi. Ma adesso devono fare quello che è giusto per loro. Perché è il loro momento, il loro momento, lassù. Ma qua sotto è il nostro momento. È il nostro momento qua sotto. E finirà tutto nell’istante in cui salteremo dentro questo secchio

(MIKEY WALSH, prima di decidere di entrare nelle viscere della montagna per scovare Willy l’orbo e dimostrare il suo coraggio)

P.s.ho scoperto che ad Astoria è stato girato anche un altro film “mitico”, “Un poliziotto alle elementari” con Arnold Schwarzenegger …che credo di aver visto come minimo 10 volte…deformazione professionale😁

Portland: una città da scoprire

TU CHE SEI IN VIAGGIO

(Antonio Machado)

Strabilianti viaggiatori! Quali nobili storie

leggiamo nei vostri occhi profondi come il mare!

Mostrateci gli scrigni delle vostre ricche memorie,

quei magnifici gioielli fatti di stelle e di etere.

Vogliamo navigare senza vapore e senza vele!

Per distrarci dal tedio delle nostre prigioni,

fate scorrere sui nostri spiriti, tesi come tele,

i vostri ricordi incorniciati d’orizzonti.

Diteci, che avete visto?

Charles Baudelaire

Era il 1845. Furono dei cacciatori di pellicce del New England a fondare Portland, in Oregon. Curiosamente, il nome venne deciso col lancio di una moneta: la scelta era fra Boston, dalla quale proveniva Asa Lovejoy, e Portland, città di Francis W. Pettygrove, nel Maine.

Inutile dire che vinse il secondo. 

Già…il Maine. Era l’estate del 2019 quando lo attraversai ed ebbi la possibilità di visitare, appunto, la “sua” Portland che mi aveva affascinato parecchio. Ero ignara, come tutti, di quanto sarebbe accaduto dopo pochi mesi e del fatto che viaggiare sarebbe diventato difficile, anche impossibile, per due anni.

E così, nel progettare questo nuovo viaggio on the road, mi è sembrato simbolico ripartire da un’altra Portland: la fine e l’inizio che si danno la staffetta. 

“A Portland chiunque vive come minimo tre vite” ( Katherine Dunn).

Dunn, scrittrice vissuta a Portland per molti anni, esprime con questa frase l’essenza di Portland e cioè il continuo mutamento della città che da “ città delle rose” è diventata “ città dei libri” in poco meno di 50 anni.

Il roseto di cui si parla è molto famoso negli Stati Uniti: infatti questo giardino è uno dei luoghi più amati e i più famosi di Portland. Fu creato nel 1917, dopo che molte donne decisero di esporre le loro rose per farle vedere ai vicini e in seguito, anno dopo anno, divenne una distesa molto vasta tanto che Portland venne chiamata “La Città delle Rose”. All’interno del parco ci sono diversi giardini, tra cui il giardino delle rose in miniatura e il giardino di Shakespeare. Dal parco si vede tutta la città di Portland (comunque questo caldo allucinante, 39 gradi in una cittá che al massimo d’estate da sempre arriva a 25 gradi, 26, ha dato il colpo di grazia al roseto…erano di più i petali a terra che quelli sulle corolle🙄)Eccomi qua: una rosa tra le rose!🤣

“Città dei libri” invece è un appellativo che deriva dal fatto che ( pare) in città chiunque abbia a che fare con i libri e la lettura dopo l’apertura, negli anni ‘50, di una libreria indipendente, la Powell’s City of Books, che fece un successo enorme e in pochi anni aprì 6 diverse sedi in città. Dunque città di scrittori, lettori e librai. Potevo non dedicare un pomeriggio a questo tesoro??? no!! Anche se devo ammettere che queste sono le situazioni che mi mandano in tilt, perchè essendoci troppo cose che voglio vedere, non riesco a scegliere, perdo la concentrazione, non so da dove iniziare e così…arrivo al fatidico momento in cui mio marito esclama “ Adesso però basta: siamo qui dentro da 3 ore!!!”…ed a me sembra di non aver ancora cominciato ad esplorare.

A malincuore usciamo dalla libreria e per tirarmi su e terminare la giornata con una nota di dolcezza andiamo in un posto considerato molto cool: non puoi andartene da Portland, infatti, senza aver assaggiato un ghost donuts della pasticceria Voodoo Doughnut : buonino e tanto carino! Ma che coda!!!

E poi il fiume, le luci, i graffiti, lo street food, e tanto altro …

Sono contenta di aver cominciato il nostro viaggio da questa città: Portland una città smart e slow, dove si respira accettazione e unicità…una piccola San Francisco…in effetti è difficile definirla con un aggettivo: vivace, multietnica, idealista, liberal, spregiudicata… Forse il termine giusto è emergente: una città in perenne movimento alla ricerca di una sua identità, tra hippy, intellettuali, homeless e nerd.

Un Oregon da vedere e, ancora di più, da vivere.

SOLVANG

Appena fuori Santa Barbara c’è una cittadina, Solvang, che ha origini danesi.
Nel 1910, alcuni danesi vennero a conoscenza della ‘messa in vendita’ di una parte di questo territorio nella California centrale: la zona era molto fertile, attraversata da numerosi fiumi, con colline coperte da querce e con ampi spazi “abitabili'”.Così…detto, fatto!! Nel 1911 nacque questa colonia di danesi-americani col nome di Solvang, che nella loro lingua significa ‘sunny fields’ (campi soleggiati) e numerose famiglie danesi iniziarono ad arrivare da tutti gli Stati Uniti.

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E’ un villaggio molto carino, caratteristico, vale la pena di farci un salto.  Le case, i negozi, gli hotel ,…tutto ideato nello stile tipico del nord Europa: addirittura qua e là si vedono mulini a vento e i camerieri nei locali vestono i costumi originali danesi.

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Si trovano tantissime bakery (panetterie/pasticcerie) dove si possono gustare i famosi biscotti danesi (buoni ma con taaaaaaaanto burro) e una quantità infinita di paste (grosse, tanto grosse) e torte.

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Ho anche trovato un negozio che offre pura creatività per i bambini, ma non solo!!!….non avrei più voluto venire via!!!!!!

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Insomma…alla fine della visita mi ha preso il desiderio di fare un viaggio nei paesi del nord Europa!!!
Chissà … 🙂

P.s: un saluto da Andersen 🙂

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“Vivere non è abbastanza, uno deve avere il Sole, la libertà e un piccolo fiore.”
(Hans Christian Andersen)

CALIFORNIA SHOPPING

La moda è un’eccellenza italiana: su questo non si discute.
Tuttavia, gironzolando per i vari malls shopping di queste cittadine californiane, ho trovato alcuni marchi di abbigliamento che mi hanno incuriosita.
Si tratta non soltanto di stili di abbigliamento che incontrano i miei gusti, ma anche del tipo di immagine che si sono costruiti e della particolare atmosfera che si respira nei loro stores.

In particolare questi sono alcuni marchi che hanno attirato la mia attenzione ( fra l’altro alcuni articoli si possono trovare anche in Italia)

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Una catena molto originale e giovane: lo stile tende all’elegante-hippy, prezzi accessibilissimi…molto carina. Si trovano non solo abiti ma anche scarpe, borse , accessori.
I negozi sono solitamente arredati con colori pastello ma comunque sempre molto colorati.
Pochi ed evanescenti gli elementi di arredo; spesso ci sono molti fiori e alcuni oggetti vintage.

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2.Lucky brand

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Stile molto sportivo, talvolta tendente al country, ma sempre con un pizzico di eleganza e tanto buon gusto.
I prezzi si posizionano in una fascia media.
Anche qui si trova abbigliamento ma anche calzature e accessori.
I negozi richiamano atmosfere legate al mondo rurale, al far west: mobili in legno, molti banconi, cassapanche e colori piuttosto scuri.

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3. Anthropologie

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Decisamente più ricercato e con prezzi un pochino più alti
Una catena che ho trovato molto presente soprattutto a New York, ma che ha iniziato a espandersi anche nel resto del paese.
Stille molto originale.
Si trova anche oggettistica per la casa.
I negozi danno un’idea di disordine, ovviamente calcolato: infatti la merce non è posizionata in settori separati, ma mischiata …puoi trovare un paio di sandali vicino a una borsa, alcuni abiti, poi cose per la casa. L’idea è quella dell’andare alla ricerca dell’articolo giusto per te…una specie di caccia al tesoro!

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Nei negozi sempre tanta cortesia, disponibilità, voglia di vendere ma anche di accontentare il cliente.

E questo fa la differenza!

E comunque….“Un cameriere è un uomo che porta un frac senza che nessuno se ne accorga. Per contro ci sono degli uomini che hanno l’aspetto di camerieri appena si mettono un frac. Così in ambedue i casi il frac non ha nessun valore.”
(Karl Kraus)

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OLD MISSION SANTA BARBARA

E’ una delle architetture sacre più belle che ho ammirato sulla costa della californiana. La missione risale al 1786, ma la chiesa cattolica, con la sua maestosa facciata con doppio campanile, fu eretta nel 1820 ed è tuttora la missione più visitata della California.

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Old Mission Santa Barbara  ha una lunga storia fatta di crolli, ricostruzioni e restauri, succedutisi dall’anno della fondazione fino alla metà del novecento, anche a causa dei diversi terremoti che hanno colpito questa terra.

June 1925: Exterior of Mission Santa Barbara following the 6.8 earthquake of June 29, 1925. This photo was published in the July 1, 1925 Los Angeles Times.

La chiesa è sempre attiva per le funzioni religiose, è sede di un’intensa attività parrocchiale: passeggiando lungo i suoi portici, ancora oggi, è possibile ascoltare le preghiere e i canti dei frati francescani che abitano e pregano al suo interno.

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Un edificio comunicante ospita un interessantissimo museo dove approfondire la storia dell’incontro fra i frati francescani e i nativi, con tanto di testimonianze storiche e oggetti sacri e profani dell’epoca.

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Molto bello anche il giardino interno…merita una sosta, prima di riprendere il cammino…

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C’è un altro cielo

C’è un altro cielo,
sempre sereno e bello,
e c’è un’altra luce del sole,
sebbene sia buio là –
non badare alle foreste disseccate, Austin,
non badare ai campi silenziosi –
qui è la piccola foresta
la cui foglia è sempre verde –
qui è un giardino più luminoso –
dove il gelo non è mai stato,
tra i suoi fiori mai appassiti
odo la luminosa ape ronzare,
ti prego, Fratello mio
vieni nel mio giardino!

Emily  Dickinson

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DO YOU SPEAK ENGLISH ?

Sempre più spesso si sente chiedere «Ma tu lo sai l’inglese?».
La prima risposta per molte persone è un giro di parole: «Si, certo. L’ho studiato a scuola e ora dovrei soltanto…rinfrescarlo un po’». Ma in cuor proprio il timore è che al posto della programmata “rinfrescatina” forse ci sarebbe bisogno di una totale full immersion.

Questi sono alcuni siti web che i professori dell’università di Irvine che insegnano inglese agli studenti internazionali hanno consigliato per migliorare in particolare la pronuncia e la  fluency

1.http://www.elementalenglish.com

In particolare molto utili i video relativi alla corretta pronuncia

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2. http:/www.ted.com

In realtà TED è molto di più di un sito utile per imparare l’inglese!

TED (Technology Entertainment Design) è una conferenza che si tiene ogni anno a Vancouver e, recentemente, ogni due anni in altre città del mondo.
La sua missione è riassunta nella formula “ideas worth spreading” (idee che val la pena siano diffuse). Le migliori conferenze sono state pubblicate gratuitamente sul sito web del TED. Le lezioni abbracciano una vasta gamma di argomenti che comprendono scienza, arte, politica, temi globali, architettura, musica e altro.
I relatori stessi provengono da molte comunità e discipline diverse, tra cui l’ex presidente degli USA Bill Clinton[, il Premio Nobel James Dewey Watson, i cofondatori di Google Sergey Brin e Larry Page e il fondatore di Microsoft Bill Gates].

La cosa interessante è che sono sottotitolati in varie lingue e son piuttosto brevi…oltre al fatto che i relatori sono veramente molto coinvolgenti e ironici.
Davvero una miniera questo sito!!!!

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3.http:/www.myenglishpages.com

Sito completo: reading, listening, grammar, vocabulary, speaking, writing, exercises.

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4. http://www.thefreedictionary.com

Non un semplice dizionario….ma un supporto interattivo con un focus agli idioms, cioè i modi di dire specifici di una determinata lingua, che sono la vera chiave per capire soprattutto le conversazioni quotidiane.

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5. http://lyricstraining.com

Sito con video musicali, correlati di sottotitoli. La cosa carina sta nel fatto che mentre ascolti la canzone, devi inserire la parola mancante altrimenti la musica sfuma!!! Veramente utile per aumentare la velocità di comprensione, ma anche divertente.

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6. http:/create.kahoot.it/#

Ultimo, ma non ultimo, questo sito potrebbe essere utile soprattutto agli insegnanti: consente di realizzare dei quiz che la classe intera affronta giocando in aula. Ispirato alla pedagogia digitale basata sul gioco è una piattaforma di blended learning, di tipo collaborativo, per la creazione e fruizione da parte della classe di test.
Kahoot consente di realizzare test della tipologia “a scelta singola”. Il suo utilizzo è free e richiede una semplice registrazione che è gratuita. E’ possibile condividere il quiz nei principali social network (Facebook, Twitter, Pinterest, Google +, ecc.).

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Allego qui la fotografia dei consigli che sono stati dati agli studenti per migliorare la pronuncia.

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La considerazione/ domanda stimolo che la accompagnava era questa. “ Secondo voi si ascolta più volentieri e si comprende meglio una persona che conosce molti termini, rispetta tutte le regole grammaticali ma pronuncia il tutto in modo pessimo o una persona con un vocabolario povero che però sa utilizzare con pronuncia corretta?”

A voi la risposta.

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UNIVERSITY OF CALIFORNIA: IRVINE

Non c’è niente da fare: vacanza o non vacanza, periodo di relax o meno, ogni tanto prende il sopravvento la mia anima di insegnante. E così…eccomi qua a visitare il campus dell’Università della California di Irvine (conosciuta anche come UCI) che è stata fondata nel 1965 nella contea di Orange in California.

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Ha più di 27.000 studenti e si può tranquillamente dire che Irvine-città coincide con Irvine-campus universitario, perché è davvero enorme!!!

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Il campus universitario è veramente fantastico!! Grande, ben organizzato, distaccato da qualunque distrazione, immerso nel verde.
All’interno numerosi servizi a disposizione per gli studenti come free shuttle, connessione Wifi ovunque, caffetterie, ristoranti,…

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Mi avvio verso quello che è considerato il centro dell’università, Aldrich Park: si tratta di un parco molto grande che è attraversato da un percorso circolare, pedonale e ciclabile, detto Ring Mall che consente di arrivare facilmente alle varie unità accademiche.

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Tutto intorno vedo affacciarsi molte aree attrezze per lo studio, come la biblioteca centrale, la Langson Biblioteca( anche se quasi tutti i dipartimenti e le scuole del campus mantengono le proprie sale di lettura e piccole collezioni di testi di riferimento per seminari universitari e sessioni di studio) e il grande Centro Studi Gateway un centro studentesco con laboratori e aree di studio aperto 24 ore al giorno! Ma anche le zone all’aperto, semplicemente arredate con tavolino e panche, sono numerose e molto invitanti per lo studio.

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La professoressa che mi accompagna nel tour spiega che una rete sotterranea di tunnel corre tra molti dei principali edifici del campus e la pianta centrale: gallerie più piccole si diramano da questo passaggio principale per raggiungere gli edifici singoli. Questi tunnel sono stati oggetto di molte leggende: quella più popolare è che siano stati costruiti per facilitare l’evacuazione dei docenti in caso di una rivolta studentesca!

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Ma torniamo a noi…

Entriamo nell’unità accademica di economia e marketing: all’interno è tutto perfetto, in ordine, pulito, con mobilio e finiture di qualità; nei corridoi ci sono divanetti e bei tavoli per studiare.
Le aule sono tutte piccole (15-20 persone al massimo) per favorire un rapporto molto ravvicinato con i professori; gli studi dei ricercatori, ben strutturati e ricchi di attrezzature.
Persino gli uffici amministrativi mi sono sembrati belli!!

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Poi mi spiega alcune caratteristiche del campus che riguardano la vita degli studenti: ad esempio che sono presenti
oltre 650 associazioni studentesche e organizzazioni del campus che aiutano gli studenti a trovare amici con cui condividere interessi accademici, multiculturali, politici, religiosi, sociali o sportivi ( e gli impianti sportivi, qui, non sono uno scherzo!!!)

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Come mascotte è stato scelto, nel 1965,un formichiere!!
Canti scolastici e varie acclamazioni sportive presentano la parola “ZOT” (che sarebbe il rumore prodotto da “Pietro il Formichiere” mentre si mangia le formiche!)
Il saluto tradizionale con la mano viene eseguita toccando le punte delle due dita centrali con il pollice, e facendo scorrere il pollice indietro, rendendo il mignolo e l’indice le orecchie e le dita nel mezzo il muso del formichiere….insomma fate le corna e poi distendete le dita centrali 🙂

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Ovviamente non si è un universitario senza la classica felpa che si può comprare nello bookshop del campus che è fornitissimo di tutto e di più!

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Ma studiare qui, oltre che piacevole, è anche proficuo?

Pare di sì!
Tre ricercatori della facoltà hanno ricevuto il Premio Nobel nel corso della loro permanenza a UCI: Frank Sherwood Rowland (Chimica , 1995), Frederick Reines ( Fisica , 1995), e Irwin Rose ( Chimica , 2004). La ricerca che ha portato al Nobel del dottor Rowland è stata condotta esclusivamente a UC Irvine!

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Me ne vado e sospiro….mi è piaciuto proprio!

Fortunato chi potrà studiare qui.

Ma fortunato soprattutto a chi avrà insegnanti con la I maiuscola.

“Rimane la necessità di dover comunicare loro non solo il piacere della vita ma anche la passione della vita di educarli non solo a dire la verità, ma anche ad avere la passione per la verità. Vederli felici non ci può bastare. Dobbiamo vederli appassionati a ciò che fanno, a ciò che dicono e a ciò che vedono.” (Gianni Rodari)

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